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La Giustizia nella Provincia della Cargna


Durante il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia l’amministrazione della giustizia nella ''Provincia della Cargna'' era riservata al Tribunale di Tolmezzo e le pene erano ratificate dal Consiglio della Terra.
Di quali delitti si macchiavano i nostri progenitori in quei secoli remoti? Sicuramente degli stessi che fanno tanto scalpore nella nostra società attuale e di questi non ne furono certamente esenti i nostri compaesani. Si andava dalle imprecazioni alle ingiurie, dalle violenze al furto, dalle percosse agli omicidi.
Lo storico locale Giovanni Gortani, già altre volte citato, ha trascritto numerosissime sentenze criminali emesse dal sopraccitato Tribunale; di queste, abbiamo potuto esaminare gli anni 1538-1565 ed emergono un numero impressionante di atti di violenza. In quel periodo, in Carnia, vi furono diciannove persone che, per mano altrui, persero anche la vita e la maggior parte di questi omicidi avvenne sempre a seguito di liti furibonde. Semplici diverbi scoppiati per cause apparentemente futili, complice molte volte l’alcool, sfociavano in atto di violenza che, alle volte, poteva divenire mortale se l’aggressore brandiva un qualsiasi oggetto offensivo (legno, sasso, pugnale, spada).

I castighi naturalmente erano proporzionati alla gravità della colpa e per il colpevole, sempre identificato con certezza di prove, costituiva un’aggravante determinante la sua contumacia. Ciò portava inevitabilmente ad un inasprimento della pena. Si andava dalla sanzione pecuniaria alla fustigazione, dalla messa alla berlina alla carcerazione, dal bando temporaneo al servire sulle galere venete. Nei casi più gravi era previsto il taglio della mano destra ed anche la pena capitale che, per il condannato, prevedeva, nei tempi più antichi, la decapitazione con successivo squartamento; ultimamente divenne d’uso anche l'impiccagione.

Di tutti i casi di omicidio esaminati, in solo due di essi il Tribunale di Tolmezzo emanò, al termine del processo, una sentenza capitale. La prima “sententia criminalis decapitatoria ad mortem” fu emessa nel 1540 a carico di un certo Valentino figlio del fu Domenico Pilinini, pescatore di Somplago di Cavazzo, riconosciuto colpevole di aver ucciso il suo compaesano Giorgio Biliani. Non ci è dato sapere se la pena capitale, che prevedeva per il Pilinini il taglio della testa su di un palco appositamente preparato (“amputetur caput illius a spatulis”), sia stata eseguita.
Si concluse invece, effettivamente sul patibolo, la condanna a morte comminata a Piero figlio del fu Francesco Piero del Basso, nativo di Arten del distretto di Feltre. Costui era un balordo vagabondo che andava elemosinando fingendosi ammalato. Fu riconosciuto colpevole di aver assassinato a bastonate, nei pressi di Forni di Sotto, un vero e povero mendicante di Treviso il quale, per giunta, era anche gobbo. La sentenza di condanna a morte venne emessa il 24 novembre 1539 ed eseguita nello stesso giorno ''...et presente multitudine tam populo quam territorij.'' (e presente una moltitudine tanto di popolo – di Tolmezzo, n.d.r. - quanto del territorio), come attestò il notaio Cristoforo Angeli che la annotò nei pubblici registri: ''...Petrum Bassi predictum, taliter quod obijt hic in Platea Tumetij, et ita divisum duxit extra portam inferiorem in loco solito, ubi in furcis quartas suspendit...'' (il predetto Pietro di Basso è stato squartato in quattro parti di modo che è morto qui sulla piazza di Tolmezzo e così diviso è stato portato fuori della Porta di Sotto, nel solito luogo, dove i quarti sono stati appesi sulle forche).

Da ''La Storia: Capitolo Quarto'' - Giulio Del Bon


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